REATO DI ESERCIZIO ABUSIVO DELLA PROFESSIONE DI PSICOLOGO/PSICOTERAPEUTA (I PARTE)
L’art. 348 c.p., che prevede e punisce il reato di esercizio abusivo della professione, viene qualificato come norma penale in bianco in quanto necessita, a fini integrativi del reato, del ricorso a disposizioni extra penali che stabiliscono i requisiti oggettivi e soggettivi per l’esercizio di determinate professioni (Corte Cost. n.199/1993; pluribus Cass. 16566/2017). Nel caso di esercizio abusivo della professione protetta di psicologo/psicoterapeuta, per integrare la norma penale, si deve ricorrere all’art.1 L.56/89 istitutiva dell’Ordinamento della Professione di psicologo che definisce la professione di psicologo come quella che “comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito“, prevedendo all’art.3 comma 1 che l’esercizio della professione di psicoterapeuta sia subordinato all’ulteriore frequenza (dopo la laurea in psicologia o medicina) di un corso quadriennale. Ulteriori elementi indispensabili per l’esercizio della professione sono il superamento dell’esame di stato e l’iscrizione all’albo.
Il problema concreto da affrontare per capire se una condotta integri o meno il reato in oggetto, è quello di individuare quali attività poste in essere possano essere considerate come “atti tipici” della professione di psicologo/psicoterapeuta, ossia cosa in concreto possa integrare “uso di strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità”.
La giurisprudenza, sia di merito che della Suprema Corte, ricorre, chiaramente, alle teorie/scienze psicologiche per “riempire di contenuto” concetti generici e generali come “diagnosi” “terapia” etc . Di seguito alcuni precedenti:
A) Secondo il Tribunale di Ravenna (nella nota sentenza n.422/07 sul caso Abela, condannato per il reato di esercizio abusivo della professione di psicologo), può così distinguersi: “lo psicologo fa essenzialmente una attività diagnostica, in senso ampio del termine, cioè cerca di individuare quali sono i problemi psicologici che ha il suo interlocutore … quindi le ragioni di un disagio, di una sofferenza psichica, l’individuazione anche di situazione di patologia, …; lo psicoterapeuta … è quello che interviene in modo attivo a ‘curare’ in senso psichico“, con alcune precisazioni ossia che deve escludersi che lo psicologo si occupi unicamente di psicopatologia, e che l’attività di ‘diagnosi psicologica‘ comprende anche quella di ‘sostegno psicologico‘ (vds Tribunale di Ravenna, sent.n.422/2007). Pertanto lo psicologo non è solo chi ‘cura’ ma è anche colui che, pur rimanendo nell’ambito clinico (e quindi facendo riferimento a teorie psicologiche che applica) si occupa del mantenimento del benessere psichico (e, a riprova, esiste anche la psicologia della salute), e può esserci abusivismo anche semplicemente ponendo in essere comportamenti miranti alla promozione e mantenimento del benessere psichico pur non attuando nessuna psicoterapia. Invece lo psicoterapeuta può definirsi una species del più ampio genus, in grado di affiancare all’attività di diagnosi, indagine e sostegno proprie dello psicologo, anche l’attività terapeutica sulla base delle specifiche competenze acquisite nella scuola di specializzazione almeno quadriennale. Quindi è possibile che vi sia condotta penalmente rilevante non solo se un soggetto privo dei requisiti ponga in essere una psicoterapia, ma anche se attui l’attività riservata allo psicologo ossia ponga in essere attività diagnostica/sostegno senza i requisiti di legge.
Nella sentenza del Tribunale di Ravenna, si legge, inoltre, che sono strumenti specifici della professione di psicologo quegli strumenti “il cui uso si fonda sulla conoscenza dei processi psichici e che consistono essenzialmente nella osservazione, nel colloquio e nella somministrazione di test aventi lo scopo di individuare particolari aspetti del funzionamento psichico. Detti strumenti sono psicologici nella misura in cui hanno per finalità la conoscenza dei processi mentali dell’interlocutore, con utilizzo di schemi e teorie proprie delle scienze psicologiche“. Il condurre colloqui su vari aspetti della vita dei clienti al fine di diagnosticare problematiche di natura strettamente psicologica connesse ai disturbi lamentati e fornire consigli su come affrontare e risolvere tali problemi, costituisce attività tipica e riservata dello psicologo
B) Corte di Cassazione n.39339/2017: dopo aver richiamato l’orientamento della giurisprudenza (“si è ritenuto costituire esercizio abusivo della professione: l’attività di pranoterapeuta che, prima di imporre le mani, intrattenga approfonditi colloqui su aspetti intimi della vita dei pazienti, per diagnosticare problematiche psicologiche eventualmente all’origine dei disturbi da loro lamentati (Sez. 6, n.16562 del 15/03/2016; Sez.6, n.17702 del 03/03/2004) o di chi tratta pazienti affetti da disturbi psicologici (ansia, fobie, depressioni) con colloqui e anamnesi per collegare cause psicologiche e disturbi fisici (Sez. 6, n.20099 del 19/04/2016) o con consulenze per problemi caratteriali e relazionali, sostenute da percorsi terapeuti, sedute, colloqui e pratiche ipnotiche (Sez.2, n.43328 del 15/11/2011, RV 251375; Sez.3, n.22268 del 24/04/2008 Rv. 240257) o con la rievocazione delle esperienze passate (Sez. 6, n.14408 del 23/03/2011)” ), afferma che si può qualificare come esercizio abusivo della professione di psicologo “l’attività psicoterapeutica teleologicamente orientata, che prescinde dalle modalità (che possono essere scientificamente collaudate o meno) con cui l’attività si esplica e richiede che essa abbia come presupposto la diagnosi e come obbiettivo la cura di disturbi psichici. Questa interpretazione è in armonia con la ratio dell’art.348 c.p. che mira a evitare che sia messa a repentaglio la salute psichica del paziente: non è necessario che il soggetto non qualificato si avvalga di una delle metodologie proprie della professione psicoterapeutica, ma è sufficiente che la sua azione incida sulla sfera psichica del paziente con lo scopo di indurne una modificazione, che potrebbe risultare dannosa”.
Appare molto incisivo il principio affermato dalla S.C. secondo la quale la diagnosi e la cura -con qualunque modalità sia attuata- sono attività riservate se attuate con l’intento di curare disturbi psichici (ovviamente la S.C. non definisce il concetto di disturbo psichico, ma per questo si dovrà fare riferimento alla scienza psicologica e alle teorie elaborate). (continua)